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Secondo la Corte di Cassazione, in caso di difficoltà economiche, bisogna preferire il versamento dell’imposta all’Erario rispetto alla retribuzione dei lavoratori, poiché quest’ultima, pur essendo tutelata a livello costituzionale, non riceve anche tutela penale

di Danila Sarno

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Commette reato l’imprenditore che, essendo in difficoltà economiche, sceglie di non pagare l’Iva per riuscire a retribuire i propri dipendenti. É quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, con sentenza numero 30.628 del 2022, che ha confermato la condanna di un uomo a quattro mesi di reclusione (pena poi sostituita con una multa di 30 mila euro, successivamente ridotta a 9 mila euro) per aver commesso il reato di “omesso versamento d’Iva”, disciplinato dall’articolo 10 ter del decreto legislativo numero 74 del 2000.

A nulla è valso il tentativo di difesa del condannato, secondo il quale la condotta criminosa in questione sarebbe scusata dalla scelta di destinare le somme dovute all’Erario al pagamento degli stipendi. È vero, infatti, che la Costituzione tutela sia l’obbligo contributivo, che il diritto dei lavoratori a percepire la retribuzione, ma, in caso di conflitto, a dover prevalere è l’obbligo tributario in quanto esso, a differenza dell’obbligo retributivo, riceve anche tutela penale.

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Richiamando una sentenza delle Sezioni Unite del 2013, gli Ermellini hanno poi ricordato che, affinché si configuri il reato di omesso versamento dell’IVA, non è necessario il dolo specifico, bensì il dolo generico. Ciò significa che, per la sussistenza della condotta criminosa, non si richiede che il soggetto abbia agito con lo scopo specifico di evadere le imposte, essendo sufficiente la consapevolezza di non versare le ritenute effettuate. Anzi, in genere, la prova del dolo è insita nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge la somma dovuta a titolo d’imposta. Inoltre, va considerato che, quando il soggetto d’imposta effettua operazioni imponibili, riscuote già l’Iva dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata, organizzando le risorse disponibili su scala annuale, in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria; per tale motivo, non può essere invocata, come scusante, la crisi di liquidità del soggetto, a meno che non si dimostri che la difficoltà economica non solo non risulta imputabile all’imprenditore, ma neppure poteva essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso ad idonee misure.

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In effetti, nel caso di specie, a fronte dell’accertata mancata attivazione di iniziative di riscossione dei crediti, il ricorrente non ha neppure dimostrato che le somme non versate all’Erario erano indispensabili per garantire la continuità aziendale, tanto più considerato l’enorme volume di affari della società. L’imputato, perciò, avrebbe semplicemente deciso di “autofinanziare la prosecuzione dell’attività aziendale con le risorse che, invece, avrebbe dovuto accantonare su base annuale per assolvere al debito tributario; ciò integra il dolo della fattispecie in esame perché, così facendo, l’imputato deliberatamente effettuò la scelta, libera e consapevole, di privilegiare il pagamento di determinati creditori (i lavoratori) a discapito delle ragioni dell’Erario”.

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