Sergio Vecchio

Un pannello realizzato nel 2015 dall’artista pestano per la Chiesa dell’Addolorata del complesso di Santa Sofia sarà installato nel convento di San Michele sabato 10 febbraio alle 10

Autobiografia di un viaggiatore notturno” è il pannello che Sergio Vecchio realizzò nel 2015 nella Chiesa dell’Addolorata del complesso di Santa Sofia e che verrà donato dalla famiglia Vecchio alla Carisal presso il convento di San Michele sabato 10 febbraio alle 10.
Alla cerimonia presenzieranno il presidente della Provincia Francesco Alfieri, il sindaco Enzo Napoli e il presidente della Carisal Domenico Credendino.

La cerimonia di donazione precede di dieci giorni l’inaugurazione della mostra “L’impronta dorica nel segno contemporaneo” che si terrà nello stesso luogo il 21 febbraio a partire dalle 18 e fino al 3 marzo.
Domenico Credendino, oltre ad aver accolto nella sede Carisal il percorso retrospettivo dell’artista pestano, definisce l’iniziativa nel catalogo che accompagna l’esposizione «in piena sintonia con il nostro operato e il nostro impegno che va nella direzione di promuovere la cultura sul territorio e favorire momenti di aggregazione e socialità».

Promotrice dell’evento l’associazione Opificio Crea il cui presidente Vincenzo Adinolfi mette in luce lo spirito che la anima «dare visibilità e forza a tutti i fermenti di spessore ma anche valorizzare il settore culturale, artistico e dell’artigianato d’eccellenza, volano di sviluppo sociale ed economico per la città e la provincia». L’ecclettismo dell’artista, nato a Castellabate ma vissuto per l’intera sua vita a Paestum, ha saputo sintetizzare una molteplicità di anime creative dalla pittura alla scrittura alla ceramica.

Il suo mondo viene definito nel testo critico di Gabriella Taddeo «un mondo siderale» dominato da una «divinità primordiale e misconosciuta che circola sommessa nel mondo dereale di Sergio Vecchio. È Erebo, personificazione dell’oscurità, del tramonto, una figura del mito ellenico che è anche manifestazione del cosmo che sta per definirsi nella diversità della specie. (…) In esso il tempo che anima ed attraversa le sue opere, non si muove in avanti, non è lineare ma insegue la curva della circolarità…».

                             

Ecco di seguito il testo di presentazione della mostra redatto da Gabriella Taddeo sul mondo siderale di Sergio Vecchio

Una divinità primordiale e misconosciuta circola lieve nel mondo de-reale di Sergio Vecchio. È Erebo, personificazione dell’oscurità, del tramonto della luce del giorno, una figura del mito ellenico che è anche manifestazione del cosmo che sta per definirsi nella diversità delle specie. Una interminabile sospensione, una costante attesa avvolge questo mondo. In esso il tempo che anima ed attraversa le sue opere, non si muove in avanti, non è lineare ma insegue la curva della circolarità: fra presente e tempo arcaico perde la progressione cronologica, è il passato del dorico che colloquia con il presente ed il futuro in una eternità che coinvolge gli dei, i miti e le creature delle zolle paestane. Le sue sagome notturne che si fermano sui deserti sabbiosi del “sempre” aspettano tutte in un infinito limbo, in una dimensione serale ed immaginifica: è un regno di creature più che di uomini nel trionfo innegabile di una soave allucinazione e di un singolare “teriomorfismo” dove le vere divinità come in tante antiche religioni sono gli animali. È un mondo straordinario alla Propp, de-realizzato, siderale, vago, sommesso, indeterminato, una “terra d’ombra” che potrebbe situarsi nelle abissali profondità del mare, o anche sulle aspre cime di un monte, in una voluta indefinizione dello spazio oltre che del tempo, in un grado zero dell’immagine e della cromia. “Prima d’ogni cosa il cielo – secondo Massimo Bignardi – quello che per Sergio sovrasta i luoghi abitati dalle figure della sua personale mitologia, la calotta stellata che avvolge l’antica città, con al centro l’imponente tempio elevato a Poseidone …una terra ricca di immagini e di visioni, di ombre che si allungano sui corpi di vasi, di crateri di kylix o di anfore panatenaiche …di ombre colorate…”.
Memoria personale e memoria storica si incrociano assecondando numerose e diversificate direzioni ma senza fermarsi in un senso univoco e compiuto nell’oasi della sua pittura che diviene spazio liscio, neutrale, difficile da penetrare come un labirinto.

L’artista procede come in un nouveau roman con il solo potere dei suoi occhi immersi in un acquario o dietro un vetro davanti ai quali nascono le sagome oscure sotto il possente respiro delle rovine e dei templi, avvolti dall’incertezza e dal malessere dell’attesa prima che risuoni l’avvento e la voce dell’uomo. “L’essere che io aspetto -diceva Roland Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso – non è reale… l’altro viene là dove io lo sto aspettando, là dove io l’ho già creato. E se lui non viene io lo allucino: l’attesa è un delirio”.

Mondo a parte, suggestivo che ha una scenografia inquieta, malinconica e fuori dai limitati orizzonti della razionalità. Realtà siderale che ha la fissità ma anche la luce lontana delle stelle, irrealtà di treni fermi, di oggetti agricoli, di frammenti antichi e di esseri statuari oltre che di amate bestie di terra che sembrano essere sopravvissute ad un mondo sorpassato o che sta ancora per arrivare. Pittura che pur partendo nelle prove degli anni settanta da una aspirazione concettualista darà sempre preminenza al figurativo che negli anni ottanta si frammenterà come un reperto oscillando fra narrazione e non-narrazione ma reiterando costantemente alcune immagini. Il disegno si semplifica ed il colore si accende quasi da toccare il fauve come mette in luce Massimo Bignardi fra gli anni novanta ed il 2000 ma il cavaliere lucano che compare è pur sempre notturno così come quel treno che “non è una macchina quella della modernità futurista, bensì un’ombra che taglia la pianura come una divinità…”.

Poi sarà il suo viaggio reiterato in Sicilia a rinnovare il supporto e la sua pittura stessa “carte che diversamente dalla tela offre nuclei di materia avvallamenti ed irregolari andamenti della superficie. È un supporto sul quale l’artista interviene con i colori ad olio, limitando il più possibile il ricorso a velature, a diluizioni che possono dar vita ad aloni oleosi che esasperano, in chiave espressionista l’impianto compositivo”. (M. Bignardi, Gea e il paesaggio della pittura-catalogo mostra retrospettiva al Museo archeologico di Paestum).

Rimane quel bruciante desiderio di vite passate insieme alla coscienza dell’effimero che ammanta tutte le cose e che finisce indistintamente nelle perdute rovine come lui stesso ha detto più volte: “Esiste una mia identificazione non solo autobiografica con il concetto di rovine. Ogni mio giorno che trascorro è un giorno in meno che mi rimane da vivere. Forse è l’ultimo inverno o l’ultima estate. Nulla di triste in tutto questo per carità. Ma il mio declino si identifica appunto con quello delle rovine e del lento ma inesorabile degrado delle stesse”.

Paestum è allo stesso tempo il suo centro di gravità ma anche il suo fulcro di fascinazione e di mistero difficile da decifrare tanto da far dire all’ artista: “a fatica ho intravisto i templi, sempre più inaccessibili e nascosti, quasi irraggiungibili”.

Storia soggettiva e passato arcaico scorrono come due fiumi che scorrono impetuosi in due letti paralleli e che si ricongiungono nel mare sconfinato dell’arte. Una totale immersione in questa linfa vitale che da un lato alimenta la sua espressione lunare, fatta di ombre fantasmiche e da un altro diventa un ponte proteso sul futuro grazie al suo meticoloso collezionismo che lo induce a progettare lungo l’intero corso della sua vita ma non concesso in vita dalle istituzioni, di un “Museo della memoria”, che diventò per lui una vera e propria ossessione amorosa. Come un vero e proprio innamorato l’artista ha vissuto l’avvicendarsi di fuga e ritorno dalla sua amata e odiata Poseidonia come lui stesso ci ha raccontato: “I miei ricordi di ragazzo -confidava in una intervista al Mattino del settembre 1999 – si identificano con i miei inizi di artista. Nei giardini del Museo in cui era la dimora di Pellegrino Sestieri ho spesso dormito come suo ospite. Poi successivamente con Mario Napoli sovrintendente ho incontrato artisti, studiosi di tutto il mondo…All’inizio guardavo con diffidenza l’area archeologica che anzi mi opprimeva: volevo fuggire perché ero interessato alle avanguardie. E me ne andai ma dovunque andassi incontravo artisti: Paolini a Torino, Trotta di Stio Cilento, operante in quegli anni a Milano, Del Pezzo che nelle loro opere rivisitavano Paestum e l’archeologia, oppure tra i rigattieri di Roma e di Parigi trovavo acqueforti dei templi ed iniziai così la mia raccolta-archivio ripiombando nell’angoscia e nella mia voglia di ritornare a casa”.

Sergio Vecchio ha ritrovato quindi come un vero eroe epico la sua Itaca mentre la Magna Grecia, musa dell’intera sua vita, gli ha suggerito le passioni cromatiche e l’incrocio di segni classici e contemporanei. Un rapporto d’amore per certi versi contrastato come traspare dalle sue sofferte parole che denunciano un profondo attaccamento alle proprie radici. Il suo sogno immenso ed irrealizzato in vita è stato certamente quello di rendere la sua Poseidonia da volgare, banale prodotto di consumo e di massa a luogo dell’anima con la nascita di un Museo della memoria che accogliesse al casello 21 la sua sterminata collezione di stampe, cartoline, tele e ceramiche di Paestum. Ed ancora oggi lo vediamo aggirarsi indomito all’ombra del possente respiro dei suoi templi in attesa che si realizzi finalmente la sua aspirazione. Solo allora Sergio sarà finalmente sereno ed appagato.

Gabriella Taddeo