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La pensione “minima” non sparirà con un taglio secco, ma per effetto del tempo: chi è nel contributivo puro resta senza integrazione.
Quando si parla di pensione minima, molti immaginano una soglia garantita per sempre. In realtà, il sistema sta andando nella direzione opposta: l’integrazione al trattamento minimo non è un diritto universale, e per una fetta crescente di futuri pensionati rischia di diventare un ricordo. La conseguenza è semplice e dura: se l’assegno è troppo basso, non c’è un “paracadute” automatico che lo porti al minimo.
Secondo quanto riportato da Money.it, il motivo è legato alle regole di accesso all’integrazione: oggi la ottiene solo chi può vantare almeno un contributo accreditato prima del 31 dicembre 1995. Chi invece ha iniziato a versare dopo il 31 dicembre 1996 e rientra interamente nel sistema contributivo ne è escluso, e con il passare degli anni la platea di chi può beneficiarne è destinata a restringersi sempre di più.
L’integrazione al trattamento minimo serve ad aumentare l’assegno quando l’importo mensile è troppo basso, portandolo fino alla soglia stabilita dalla legge. Non è un “regalo” a prescindere: entrano in gioco anche i redditi complessivi del pensionato, perché l’aiuto viene riconosciuto solo entro determinati limiti economici.
Nel 2025 la pensione minima è pari a 603,40 euro al mese, con possibilità di raggiungere la soglia in modo totale o parziale in base ai redditi personali e, in alcuni casi, a quelli del coniuge. A questa soglia si affianca anche una rivalutazione straordinaria: 2,2% nel 2025, che si riduce all’1,3% nel 2026 per gli assegni inferiori al minimo.
Il punto è che l’uscita di scena non arriverà con una riforma esplicita: sarà l’effetto naturale del ricambio generazionale. Secondo le stime citate, intorno al 2040 la quasi totalità delle nuove pensioni sarà composta da contributi versati dopo il 1996, e quindi senza una platea significativa con diritto all’integrazione al minimo.
Il problema è strutturale: nel contributivo l’importo dipende da quanto si è versato e dall’età di uscita, senza una soglia di tutela garantita. Carriere discontinue, periodi di lavoro povero o pochi anni di contributi possono tradursi in assegni di poche centinaia di euro. E il tema è tornato centrale anche dopo la sentenza n. 94/2025 della Corte Costituzionale, che ha inciso sul divieto di integrazione per la pensione di invalidità nel contributivo puro, spingendo il dibattito su come evitare pensioni troppo basse senza strumenti di compensazione.
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