Paroleccia nell’antica Roma e Grecia: un’inaspettata scoperta

Paroleccia nell’antica Roma e Grecia: un’inaspettata scoperta

L’immagine tradizionale di latino e greco come lingue raffinate e auliche è spesso contraddetta da una realtà più colorita. Contrariamente a quanto suggerito dalla letteratura scolastica, gli autori classici, tanto romani quanto greci, non si facevano scrupoli ad impiegare un linguaggio decisamente volgare. Testi letterari, generalmente censurati nell’ambito di un’educazione formale, rivelano un uso frequente di termini e espressioni osceni, sorprendentemente simili alle imprecazioni moderne. Prendiamo ad esempio il verbo *fellare*, presente nelle opere di Cicerone e Marziale: l’accezione originaria corrisponde all’atto sessuale orale, descritto con una franchezza che non lascia spazio a fraintendimenti. Un esempio eloquente si trova negli *Epigrammi* di Marziale (Libro II, carme 50), dove si legge: “Se succhi l’uccello e poi bevi dell’acqua, Lesbia, non sbagli. Utilizzi l’acqua, Lesbia, nel modo che ti è utile.” Questa Lesbia, amante di Catullo, viene descritta con una disinvoltura che ne sottolinea la mancanza di virtù. Anche Catullo, celebre per la sua poesia d’amore, non si limita a immagini poetiche: il carme XVI del *Liber Catullianus* contiene espressioni di volgarità estrema. Analogamente, il vocabolario di autori greci come Aristofane, soprattutto nelle commedie come gli *Acarnesi*, rivela un’abbondanza di termini offensivi e sessualmente espliciti. Un esempio: “Tu, testa calda, culo rasato, perché ti presenti qui con quella barba da scimmia a fare l’eunuco?”. Questi frammenti, seppure non inclusi nei curricula scolastici tradizionali, svelano un aspetto meno edulcorato ma più autentico della vita quotidiana e della letteratura classica, invitandoci a riconsiderare la percezione spesso idealizzata di queste civiltà antiche. Desiderate approfondire l’argomento del linguaggio volgare in greco e latino? Contattatemi!