Fino a poche decadi fa, nell’Agro nocerino-sarnese, l’arte della cesteria era fiorente, soprattutto con l’utilizzo dei rami di castagno provenienti dal Monte Albino. Panieri, ceste, sporte, canestri: oggetti di uso quotidiano, realizzati con abilità e maestria dagli “spasari”, i cestai. Questi artigiani erano una presenza costante nei quartieri storici di Pagani, Nocera Inferiore, Nocera Superiore, Corbara, Angri e Scafati, fino agli anni Ottanta. Ogni oggetto aveva un nome specifico nel dialetto locale, e persino un significato sociale: il “panaro”, ad esempio, era un simbolo distintivo delle famiglie dei quartieri popolari, utilizzato come rudimentale montacarichi nei cortili, mentre nei condomini più ricchi era relegato a contenitore per le mollette.
L’origine della cesteria è antichissima, risalente all’antico Egitto e diffusa in Grecia, Etruria e nell’Impero Romano. Decaduta nel Medioevo, riprese vigore nel Settecento nel Nord Italia, per poi diffondersi nelle aree agricole di tutta la penisola, utilizzando materiali locali come vimini, giunchi, canne, foglie di palma, rami di castagno, paglia e bambù. Nell’Agro nocerino-sarnese, il castagno del Monte Albino, oggi in gran parte sostituito da monocolture, era la materia prima principale, insieme alle canne del fiume Sarno. L’ascesa dell’industria alimentare locale incrementò la richiesta di ceste per il trasporto dei prodotti agricoli, mentre le sporte erano utilizzate da fruttivendoli e pescivendoli. La realizzazione di un singolo cesto richiedeva abilità e tempo, anche mezza giornata di lavoro, un sapere tramandato di padre in figlio per generazioni.
L’avvento della plastica, più economica e facilmente prodotta industrialmente, negli anni Settanta e Ottanta, segnò la fine di questa antica arte. Le botteghe chiusero, la tradizione si interruppe, salvo rare eccezioni amatoriali. Rimane però il ricordo vivo, nelle generazioni più anziane, degli “spasari” e dei loro manufatti, immortalato anche in un detto dialettale tuttora in uso: “Auguri senza canistro, fa’ veré che nunn hê visto”.
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