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La politica estera del governo Draghi: tra atlantismo ed europeismo

Il nuovo governo italiano, guidato dall’ex presidente della BCE Mario Draghi, ha ottenuto la fiducia del Senato, presentando un programma incentrato su priorità condivise: la gestione della pandemia, l’implementazione del Next Generation EU e la realizzazione di riforme strutturali. Queste ultime includono la transizione ecologica dell’industria (con la consapevolezza che alcuni settori potrebbero non sopravvivere), la modernizzazione della pubblica amministrazione e una riforma fiscale considerata fondamentale per la stabilità economica. Seppur inizialmente accolte con favore, queste dichiarazioni programmatiche potrebbero generare divergenze non appena si entrerà nel dettaglio delle loro applicazioni.

In materia di politica estera, il premier Draghi ha sottolineato l’impegno del Paese nell’Unione Europea e nell’alleanza atlantica, riaffermando la fedeltà ai principi e ai valori delle democrazie occidentali. Questa affermazione, apparentemente scontata, assume un significato strategico alla luce della storia politica di Draghi, delle scelte del precedente governo e dell’attuale contesto internazionale, caratterizzato da tensioni tra le due sponde dell’Atlantico e con Cina e Russia.

L’enunciazione di questa posizione suggerisce un riallineamento strategico verso gli Stati Uniti, abbandonando le aperture alla Cina che avevano contraddistinto i governi Conte. Questa scelta, però, implica un’adesione prioritaria alle direttive statunitensi, potenzialmente a discapito di una piena solidarietà europea. Di conseguenza, l’Italia, prossima a presiedere il G20, potrebbe assumere una posizione di acquiescenza nei confronti delle politiche di isolamento economico imposte alla Cina e alla Russia dall’amministrazione Biden, anche a costo di creare frizioni con la Germania, che intrattiene forti legami economici con entrambi i Paesi.

La crescente divergenza tra atlantismo ed europeismo resta una questione aperta, ma appare probabile che il governo Draghi, in nome dei diritti umani e della democrazia, privilegi la riduzione, o addirittura la cessazione, delle relazioni con i rivali strategici degli Stati Uniti, anche a detrimento degli interessi economici nazionali.

Redazione

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