Il divorzio in Italia: un’eredità napoleonica?
Il 1970 segnò un traguardo significativo per l’Italia: l’approvazione della legge Fortuna-Baslini, che introduceva il divorzio. Nonostante il referendum del 1974, teso alla sua abrogazione e caratterizzato da una netta vittoria del “No”, la legge rimase in vigore, salutata da molti come una “conquista di civiltà”. Tuttavia, una pagina meno nota della storia italiana rivela che il divorzio, seppur brevemente, aveva già trovato spazio nel Regno di Napoli. L’introduzione del Codice Napoleonico nel 1809, durante il governo di Gioacchino Murat, rese possibile la dissoluzione del matrimonio. Questa innovazione legale, valida dal 1809 al 1815, terminò con il ritorno dei Borbone e la successiva emanazione di un decreto di abrogazione. Il Regno di Napoli, dunque, si distinse come il primo stato italiano a legalizzare il divorzio, rappresentando un periodo di progresso e rinnovamento nel Sud Italia. Murat, cognato di Napoleone e Re di Napoli dal 1808, attuò numerose riforme, tra cui la creazione del Corpo degli ingegneri, l’istituzione di una facoltà di Agraria e un sistema scolastico più equo. Tuttavia, alcune istituzioni, come l’antica Scuola Medica Salernitana, furono soppresse. Il Codice Napoleonico, oltre al divorzio, introduceva il matrimonio civile e l’adozione, generando però l’opposizione del clero. Benché Benedetto Croce, nel suo scritto “Il divorzio nelle province napoletane 1809-1815”, riportasse un numero limitato di casi (apparentemente solo tre), a causa della riluttanza dei giudici, intimoriti dalla scomunica, emergono comunque alcuni esempi, come il divorzio consensuale tra Pasquale Pauciello e Angela Maria Francesca De Angelis e quello, ottenuto tramite procedura accelerata grazie all’articolo 296 del Codice, dalla baronessa catanese Maria Paternò, che accusò il marito di crudeltà, disonestà e avarizia. Ironia della sorte, dopo questa esperienza, la baronessa si risposò con il suo avvocato.