Le recenti misure restrittive nelle zone rosse hanno sollevato interrogativi sulla coerenza delle decisioni governative. In particolare, la chiusura degli istituti di bellezza, a fronte della permanenza operativa di barbieri e parrucchieri, ha suscitato perplessità e malumori. Ho personalmente assistito alla chiusura forzata del centro estetico di Federica, a Vescovado, e ho notato il suo comprensibile sconforto. La conversazione usuale, piena di allegria e chiacchiere, era stata sostituita da un silenzio pesante, carico di incertezza sul futuro. Federica, con la sua attività attenta alle norme igieniche, rappresenta un caso emblematico. Mantiene una distanza di sicurezza dai clienti, utilizza dispositivi di protezione individuale (DPI), sterilizza accuratamente gli strumenti e impiega gel igienizzante, programmando gli appuntamenti in modo da evitare sovrapposizioni. Considerando queste scrupolose precauzioni, la chiusura appare ingiustificata, soprattutto se confrontata con la situazione di barbieri e parrucchieri, dove la presenza contemporanea di più operatori e clienti aumenta il rischio di contagio. La disparità di trattamento sembra arbitraria, generando domande sulla logica alla base di queste scelte. Perché si penalizzano attività che adottano elevati standard di sicurezza, mentre si tollerano situazioni potenzialmente più rischiose? Inoltre, la sicurezza non è limitata solo agli esercizi commerciali considerati “non essenziali”. Anche la clientela di supermercati e cartolerie è esposta a potenziali rischi, considerando la non sempre corretta applicazione delle norme igieniche. La selezione delle attività da chiudere appare quindi poco trasparente e genera incertezza e frustrazione tra i cittadini. Chi è responsabile di queste decisioni e quali criteri vengono effettivamente utilizzati?
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