Un’affermazione, spesso ripetuta dai critici del sistema economico, riecheggia con insistenza nella mia mente: il capitalismo tratta i lavoratori come semplici elementi intercambiabili. Ironia della sorte, molti sostenitori dell’economia di mercato, inconsapevolmente, confermano questa critica. Con una franchezza disarmante, propongono un’alternativa crudele: morire di fame o morire per un’infezione virale. La scelta è presentata come inevitabile, ignorando l’assurdità di dover scegliere tra due forme di morte. Questa realtà, purtroppo, è sempre esistita: la guerra, il lavoro in miniere pericolose, l’esposizione all’amianto ne sono solo alcuni esempi. Ricordo le parole di un eminente avvocato, che poneva una domanda illuminante: “Se si costringesse gli uomini a scegliere tra cibo e libertà, cosa scegliereste?” La risposta è ovvia, ma ciò che appare straordinario è che, nell’era moderna, una tale alternativa sembri ancora plausibile. Oggi, sotto la spinta implacabile della riapertura immediata delle attività economiche, si ripresenta la stessa filosofia, seppur forse inconscia. Le richieste pressanti di ripresa totale, con la giustificazione di preservare l’economia, mascherano una visione disumana. La “bontà” degli economisti si manifesta nella proposta di tenere a casa anziani e bambini, sacrificandoli sull’altare della produzione. Come un’amara profezia che si realizza, la vecchiaia diventa una condizione di mera utilità, una riserva di manodopera da utilizzare a seconda delle necessità. I nonni sono chiamati a sorvegliare i nipoti, permettendo così ai genitori di lavorare. La nuova generazione, per quanto illusa di poter sopravvivere alla pandemia, è destinata ad entrare nella stessa spirale: un futuro di sacrifici, in attesa di essere considerata, a sua volta, un semplice pezzo di ricambio.
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