Riflettendo sulla celebre lettera aperta di Émile Zola, “J’Accuse,” scritta il 13 gennaio 1898, mi sono ritrovato a confrontare la sua audace denuncia dell’ingiustizia nel caso Dreyfus con la mia esperienza professionale. Zola, con un atto di coraggio immenso, accusò pubblicamente alti ufficiali francesi di aver orchestrato la condanna di Alfred Dreyfus per tradimento, un’accusa palesemente infondata alimentata da pregiudizi antisemiti e dal desiderio di nascondere le proprie inadempienze. La sua lettera, pubblicata su *L’Aurore*, rivelava una cospirazione di proporzioni enormi, una macchina del fango tesa a sacrificare un innocente sull’altare del nazionalismo.
Nel corso della mia lunga carriera di avvocato penalista, ho spesso difeso persone incarcerate ingiustamente, lottando per dimostrare la loro innocenza, a volte con successo, altre no. Ma mai mi sono spinto all’atto di accusa pubblica e clamoroso di Zola. L’Italia postbellica, pur con i suoi difetti, non ha conosciuto un’oscura cospirazione di tale portata, un processo così palesemente manipolato per condannare un imputato, come quello architettato contro Dreyfus.
Zola, con straordinaria determinazione, elencò i nomi e le responsabilità dei colpevoli, esponendosi pubblicamente a pesanti ripercussioni. La mia ammirazione per il suo gesto è profonda, ma la mia situazione è diversa. Non ho prove concrete di una simile cospirazione. E poi, ho paura.
Questa riflessione su “J’Accuse” è forse dettata da una crescente preoccupazione per il clima culturale e giudiziario. Osservando i fatti di cronaca, mi sento oppresso dalla percezione di ingiustizie sistemiche, da una crescente distanza tra legalità e giustizia. L’imminente prospettiva di alleanze politiche preoccupanti, e l’ombra di un giustizialismo cieco, mi spinge ad una profonda inquietudine. Il timore di un regime repressivo si fa strada.
Come gli intellettuali del periodo della Controriforma, costretti a camuffare le proprie critiche per evitare la censura, mi ritrovo a citare Gesù: “popolo di dura cervice,” che poi aggiungeva: “chi ha orecchie per intendere intenda.” Un monito ai contemporanei, un invito alla riflessione, sperando che la verità possa emergere, anche a piccoli passi.
Aldo Di Vito
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