La tua capacità respiratoria: un indicatore trascurato della salute

Dalla Genesi all’era moderna, il respiro è stato intrinsecamente legato alla vita stessa. Eppure, a dispetto della sua fondamentale importanza, la valutazione quantitativa della funzione respiratoria rimane sorprendentemente trascurata sia nella pratica medica che nella consapevolezza pubblica. Mentre molti si sottopongono regolarmente ad analisi del sangue, esami radiologici o cardiologici, la misurazione della capacità polmonare è raramente presa in considerazione, persino in presenza di dispnea (affanno).
Già nell’antichità, si tentarono rudimentali misurazioni del volume d’aria inspirato ed espirato. Galeno di Pergamo, ad esempio, si servì di vesciche immerse in acqua per approssimare tali volumi, applicando il principio di Archimede. Successivamente, Giovanni Alfonso Borelli, contemporaneo di Malpighi (noto per le sue ricerche sulla membrana alveolare), effettuò le prime stime del volume corrente e del volume di riserva espiratoria. Antoine-Laurent Lavoisier, celebre per la scoperta dell’ossigeno, coniò il termine “spirometria”, ma solo nel 1850 John Hutchinson pubblicò i primi studi approfonditi utilizzando uno spirometro di sua invenzione. Egli definì “capacità vitale” il volume d’aria mobilizzabile con un respiro profondo, riconoscendone il valore predittivo della longevità. Nonostante l’importanza della scoperta, l’accoglienza da parte della comunità scientifica inglese fu tiepida, tanto che Hutchinson si autoesiliò nelle isole Fiji, dove morì prematuramente.
Il successivo sviluppo della spirometria fu parallelo a quello dell’elettrocardiografia, quest’ultima forse più apprezzata per la maggiore percezione del rischio associato alle patologie cardiache rispetto a quelle polmonari. Nel XX secolo, numerose ricerche approfondirono la valutazione della funzione respiratoria in diverse condizioni, come il riposo, lo sforzo, l’alta quota e il sonno. Lo studio di Framingham, pietra miliare nella cardiologia, confermò nel 1980 l’importanza predittiva della capacità vitale sulla mortalità, sia cardiovascolare che di altra natura, validando così le intuizioni pionieristiche di Hutchinson.
Malgrado la sua rilevanza, la spirometria rimane sottostimata nella pratica clinica, a livello globale. Thomas Petty, illustre pneumologo, evidenziò nel 2002 questo paradosso, paragonandolo alla diagnosi dell’ipertensione arteriosa senza la misurazione della pressione sanguigna.
Oggi, la spirometria è un esame semplice e non invasivo, eseguibile presso molti centri sanitari previa prescrizione medica (codice 89371.001). Consiste nel respirare attraverso un boccaglio monouso, seguendo le istruzioni del personale sanitario. Controindicata in caso di emottisi, interventi oculari recenti, traumi toracici o addominali, pneumotorace, infarto recente o angina instabile, e aneurisma aortico toracico, la spirometria è indicata per la valutazione della dispnea, presente in diverse patologie, e per la determinazione del rischio operatorio o delle performance atletiche. In definitiva, la misurazione del respiro offre uno strumento semplice e prezioso per valutare la salute e, potremmo dire, la stessa vita del paziente.