La vicenda giudiziaria di Alberico Gambino, inizialmente oggetto di ampia copertura mediatica, è culminata in una silenziosa assoluzione, quasi ignorata dai mass media. Questo trattamento disparitario, tipico della stampa che spesso critica senza distinguo, evidenzia una grave carenza del sistema informativo. Gambino, come Enzo Tortora, ha subito un calvario giudiziario: incarcerazione, sospensione dalle cariche pubbliche, diffamazione pubblica e anni di angoscia, dovuti a processi, interrogatori e condanne, mentre tentava invano di dimostrare la propria innocenza. Ricordo la mia visita a Gambino in aula, un gesto di solidarietà testimoniato dai suoi familiari, un bacio scambiato platealmente davanti ai pubblici ministeri, consapevole del rischio in un paese dove anche un semplice gesto d’affetto può essere strumentalizzato. Adesso, una laconica sentenza dichiara la non sussistenza del reato, ma la superficialità con cui viene trattato il caso è sconcertante. Alcuni addirittura presentano questo come prova dell’efficienza del sistema giudiziario, una affermazione da confutare energicamente. La vera domanda è: chi pagherà per questa ingiustizia? Se i pubblici ministeri e i giudici che, senza adeguate verifiche, hanno orchestrato questo processo fossero sospesi o licenziati, come accade per reati ben meno gravi, allora potremmo parlare di un sistema giudiziario funzionante. Invece, essi rimangono impuniti. Questo atteggiamento di indifferenza, tipico di molti politici che si prosternano davanti a ogni avviso di garanzia invece di combattere le distorsioni del sistema, è inaccettabile. È necessario un cambiamento, un impegno collettivo per correggere questo meccanismo pericoloso che mette a rischio le libertà individuali. Come diceva un luminare del diritto penale (il cui nome mi sfugge), è preferibile assolvere cento colpevoli piuttosto che condannare un innocente. Aldo Di Vito [email protected]
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