La Cassazione conferma: la raccomandazione non costituisce reato

In Italia, la pratica della raccomandazione è ampiamente diffusa, tanto da essere considerata quasi socialmente accettata. La Corte di Cassazione, in diverse occasioni, si è pronunciata su questa consuetudine. Un caso emblematico risale al 2014, riguardante un ufficiale dei Carabinieri che aveva “segnalato” la figlia ad un assessore comunale per un concorso pubblico. Intercettazioni ambientali, emerse durante un’indagine per abuso d’ufficio e falsità in atto pubblico che coinvolgeva anche la commissione di concorso, il suo presidente, l’assessore e il segretario comunale, avevano inizialmente coinvolto il militare. Sebbene inizialmente accusato, l’ufficiale è stato prosciolto per prescrizione del reato. Contro questa decisione è stata presentata impugnazione, accolta dalla Suprema Corte. La Cassazione ha motivato la decisione affermando che, in presenza di una causa estintiva, il proscioglimento nel merito prevale, soprattutto se, come in questo caso, è dimostrata l’innocenza dell’imputato. Secondo gli Ermellini, l’abuso d’ufficio del Comandante, in concorso con gli altri imputati, è inesistente. La semplice raccomandazione, infatti, non costringe il pubblico ufficiale ad alcun atto; essa lascia la facoltà di accettare o rifiutare la richiesta. Di conseguenza, non si configura un concorso morale, in assenza di comportamenti attivi e coercitivi che condizionino direttamente l’azione del soggetto pubblico. Inoltre, la sentenza specifica che il reato si configura solo quando il potere viene esercitato per scopi estranei alla funzione assegnata: la segnalazione, nel caso specifico, è estranea alle mansioni di un Comandante dei Carabinieri. In sostanza, la Corte ha di fatto riconosciuto la liceità di una pratica assai diffusa nel Paese, che genera disparità, erode la fiducia nelle istituzioni, compromette l’efficienza e penalizza chi meriterebbe di più.