La Corte di Cassazione ha emesso una sentenza, la numero 9221 del 2016, che ha sollevato un acceso dibattito sull’interpretazione del reato di stalking. Il caso in questione riguardava una giovane donna vittima delle molestie del suo ex fidanzato, caratterizzate da minacce e messaggi intimidatori. Sebbene il comportamento dell’uomo presentasse tutti i caratteri tipici della persecuzione, la Cassazione ha ritenuto insussistente il reato. Il motivo? La donna aveva risposto alle chiamate e ai messaggi del suo persecutore, influenzando quindi l’esito giudiziario.
L’articolo 612 bis del Codice Penale, che definisce il reato di atti persecutori, richiede la dimostrazione di due elementi: la reiterazione di comportamenti minacciosi e la conseguente alterazione delle abitudini di vita della vittima, generando in lei un persistente stato d’ansia, paura o timore per la propria incolumità. Mentre la Corte ha riconosciuto la reiterazione delle condotte moleste (anche due episodi ravvicinati sono sufficienti), ha negato l’esistenza del secondo elemento. Secondo la sentenza, la risposta della donna alle molestie ha impedito la configurazione del reato, perché tale comportamento ha dimostrato la mancanza di un’effettiva alterazione delle sue abitudini di vita causata dall’aggressione.
Questa decisione ha suscitato forti perplessità e critiche, soprattutto per la potenziale mancanza di tutela per le vittime. Molti osservatori sottolineano che una vittima potrebbe inconsapevolmente compromettere la propria posizione giuridica, senza essere pienamente a conoscenza delle implicazioni derivanti dal rispondere alle minacce dello stalker. La sentenza pone, quindi, un’importante questione: come proteggere adeguatamente le vittime di stalking, evitando di porre un eccessivo peso sulle loro reazioni ad azioni già di per sé illegali? La disparità tra la percezione comune di stalking e l’interpretazione giuridica richiede un’approfondita riflessione, e solleva seri dubbi sulla reale efficacia della legislazione in materia.
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