Un’esitazione mi assale ogni volta che mi accingo a scrivere, o meglio, ad accendere il computer per condividere un’idea, per suscitare riflessioni e ricevere commenti, siano essi di approvazione o disapprovazione. Provo una paura ancestrale, come se vivessi sotto la minaccia di un regime totalitario, un’epoca di censura e repressione del pensiero, dove esprimere un’opinione poteva costare caro. Ironia della sorte, tutto questo accade in nome della libertà di espressione e della democrazia. Forse è solo una mia impressione, ma mi sento costantemente sotto la spada di Damocle dell’eresia, minacciato da un rogo morale, dall’ostracismo sociale. Eppure, un tempo non ero così condizionato. Ricordo il periodo spensierato in cui, in un’occasione pubblica, espressi un’opinione forte e provocatoria che ancora oggi fa sorridere molti, senza generare scandalo. Ma oggi, un semplice battibecco tra allenatori, con un’offesa omofobica, scatena una tempesta di polemiche. Ogni parola è scrutinata, ogni espressione analizzata sotto una lente di ingrandimento politicamente corretta: da accuse di maschilismo a offese verso chi ha meno capacità intellettive, da discriminazioni razziali a reati di stalking. Un clima di autocensura soffocante, dove la libertà di parola sembra essersi trasformata in un campo minato. Si può insultare impunemente i politici, considerati corrotti e incapaci, ma guai a criticare altre categorie sociali. Anche l’ingiuria è depenalizzata, privando le persone della protezione del proprio onore. E le unioni civili? Perché tante controversie? Lasciamo che ognuno scelga il proprio percorso, purché non crei disagi agli altri. Il fatto è che, in Italia, sembra impossibile essere semplicemente italiani. Ogni posizione è strumentalizzata, ogni critica interpretata come un attacco all’intera nazione. Certi commentatori, custodi di una presunta verità, giudicano la validità di un’affermazione in base alla sua aderenza a una specifica ideologia, oggi più che mai polarizzata. Sembra un eterno conflitto tra fazioni, un ripetersi di antiche divisioni. O forse il problema è ancora più radicale: stiamo assistendo al crepuscolo della razionalità, quel faro che ha guidato il pensiero europeo fin dal Settecento, plasmando la modernità e il capitalismo. Siamo nel postmoderno, un’era non di progresso, ma di regressione verso l’irrazionalità, come dimostrano il ritorno di nazionalismi esasperati e la ripresa di un’influenza religiosa sempre più pervasiva. Aldo Di Vito [email protected]
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