Silenziosamente approvata insieme ad altre normative comunitarie, una legge del 2016 autorizza le banche in difficoltà a ripianare le perdite utilizzando i fondi dei correntisti. Sebbene inizialmente sottovalutata, la norma, tecnicamente definita “bail-in”, è entrata in vigore con l’approvazione del disegno di legge di delegazione europea 2014. Questo meccanismo, di origine anglosassone e poco conosciuto, potrebbe portare l’Italia a una situazione simile a quella vissuta dalla Grecia. In sostanza, il bail-in consente agli istituti di credito in default di recuperare capitali dalle proprie risorse interne, compresi i depositi dei clienti, invece di ricorrere a finanziamenti pubblici. La direttiva europea 2014/59/UE (“Bank Recovery and Resolution Directive”) introduce nuovi strumenti per gestire le crisi bancarie, tra cui appunto il bail-in, che dal 1° gennaio 2016 permette di coinvolgere, oltre ad azionisti e obbligazionisti, anche i depositi superiori a 100.000 euro. Concretamente, se una banca è in crisi, a partire dal 2016 i correntisti con depositi oltre tale soglia potrebbero subire prelievi forzosi per contribuire al risanamento, insieme agli azionisti. Il Ministero del Tesoro ha smentito l’utilizzo del termine “prelievo forzoso”, sostenendo che la legge riguarda la “non rimborsabilità” dei conti superiori a 100.000 euro in caso di fallimento bancario, quando azionisti e obbligazionisti non riescono a coprire le perdite. Tuttavia, il risultato è lo stesso: la perdita del denaro depositato per il correntista. L’obiettivo della direttiva europea è risanare il sistema bancario in grave crisi, con sofferenze stimate oltre i 300 miliardi di euro in Italia. La direttiva è stata recepita e sarà vincolante a partire dal gennaio successivo. Il Parlamento italiano dovrà definire le modalità di attuazione. Le opposizioni, tra cui il Movimento 5 Stelle e Forza Italia, hanno espresso forti preoccupazioni, temendo che la soglia dei 100.000 euro possa essere ridotta, come già avvenuto in Germania.
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